secondo corsivo redazionale

Così veniva chiamato il quartiere INA casa quando vi si sono insediati i primi abitanti.

 

La definizione malevola, anche se ironica e anche se gli stessi abitanti se la attribuiscono, indica i debiti, o chiodi, sui quali vivevano, come dei fachiri, appunto.

   
 

Ha pesato come un marchio negativo che riemerge con facilità, magari in forme diverse. Meritavano davvero questa fama spregiativa i nostri ‘solari’ abitanti? Vediamo più da vicino la faccenda.

   

Anzitutto si tratta di contestualizzare questa realtà.

Andando a rileggere le storie che abbiamo raccolto torna questo discorso e c’è anche la spiegazione.

Gli abitanti del Villaggio del Sole e quelli delle zone vicine provenivano da una precarietà di vita diffusa nel dopo guerra (1940-45) in tutte le condizioni sociali ma la piccola borghesia degli impiegati ne era uscita un po’ prima e aveva potuto fare qualche anno in più di scuola.

Gli assegnatari delle abitazioni Ina-casa rispondevano invece alle condizioni del bando: disagio abitativo e anche economico, famiglie in genere numerose.

Trovarsi, nel 1961, ancora così vicini alla guerra, con abitazioni popolari ma nuove, che avevano l’impianto di riscaldamento autonomo, i servizi singoli e attrezzati, e spazi ampi e razionalmente divisi non era cosa frequente  allora, nemmeno tra i ceti più abbienti.

Molti adulti di quel tempo avevano un basso livello di scolarizzazione.

Ma dobbiamo ricordare che l’obbligo scolastico era ancora di soli cinque anni, cioè la quinta elementare.

La scuola media unificata con l’obbligo a quattordici anni entra in vigore nel 1962, per tutta l’Italia e per tutti gli italiani, compresi i nostri ‘solari’.

Poi però hanno fatto studiare i figli, scuola media per tutti, superiore per molti, università per alcuni, non pochi comunque, in media con gli altri quartieri.

I vestiti si usavano finché erano consumati, si rivoltavano e si tingevano i cappotti, magari quelli militari rimasti in giro per le case.

Era più o meno la norma.

E per quello che restava c’era ancora chi raccoglieva gli avanzi “strasse, ossi e fero vecio”.

Ma forse abbiamo dimenticato anche questo.

Acquistavano a credito e pagavano nei negozi a fine mese, ‘segnando’ la spesa sul famoso libretto.

Ma era una modalità molto diffusa, anzi, nei paesi c’era anche una forma di ‘baratto’: uova, latte, farina, in cambio di zucchero, caffè, sardine…Erano gli anni Cinquanta, e questo avveniva un po’ dovunque.

Chi aveva un reddito basso ha comprato a rate il frigo, la TV, la lavatrice, la macchina, e non solo al Villaggio.

Il seguito della storia. Questi abitanti hanno saputo cogliere l’opportunità: hanno acquistato la casa, chi prima chi dopo e l’hanno conservata con estrema dignità, all’interno e all’esterno.

Hanno trovato i mezzi per migliorare funzionalità e vivibilità del quartiere.

Costretti a trovare modi di stare insieme e compartecipare, nuovi per tutti, hanno sviluppato una convivenza dinamica e solidale.

Le iniziative comuni hanno legato, compattato, dato identità a tutto il quartiere e ai dintorni.

Concludendo, dire villaggio dei fachiri e altre espressioni simili significa marchiare negativamente non solo gli abitanti ma tutte le iniziative che essi hanno assunto.

Nessuno si merita questo marchio, ma soprattutto nessuno ha il diritto di applicarlo.

E poi, in fondo, la presenza di più di 500 famiglie e più di 2500 persone ha significato buone occasioni commerciali per molte botteghe e nessuna ha patito grosse perdite perché, come ricorda il signor Campi nel suo racconto raccolto nel 2006: “Devo dire che, salvo qualche raro caso, hanno sempre saldato tutto: Avevano povertà ma anche senso dell’amor proprio”