Questa storia ci parla di un tempo e di una realtà che precede di pochi anni la costruzione del Villaggio del Sole.

Era la realtà dei nostri paesi , degli stessi ambienti da cui provenivano in maggioranza i futuri abitanti del Villaggio.

Se tutto sembra così lontano è anche perché dagli anni Sessanta tutto si è trasformato con una rapidità prima impensabile.

Fermarsi a ricordare aiuta forse a capire meglio quanto siamo cambiati.

 

Noi abitavamo sul Monte Crocetta, vicino alla fattoria dei Dalla Fontana e la trattoria all’Albera era gestita da mio nonno Alberto Perozzi

  trattoria all'Albera

Quando nel 1953 mio padre, Ernesto Calgaro, comperò la metà che era del fratello di mia madre, ci siamo trasferiti anche noi all’Albera.

Qui vicino c’erano allora soltanto la fonderia Velo, il bottaio Miolo e i contadini Griggio che erano gli affittuari dei campi dell’avvocato Colognato, campi sui quali è stato costruito il Villaggio del Sole.

 

 

Nella corte da bocce della trattoria si disputavano le gare della bocciofila del dopolavoro Lanerossi, per le gare arrivava gente dai paesi vicini, da Schio, Tiene e da tanti altri.

In queste occasioni, d’estate, noi ragazzi andavamo alle ‘giassare’ di Porta Monte - lungo viale Margherita - con le sporte di tela e le riempivamo di blocchi di ‘giasso’ per tenere al fresco le bibite, tornavamo a casa con le gonne e i pantaloni bagnati perchè il ghiaccio si scioglieva per strada.

Era per la trattoria un momento di buon guadagno e ce n’era proprio bisogno allora.

All’inizio della stagione c’era un gran daffare per tirare a livello la corte con il rullo e per ripulirla, c’era da lavorare per tutti grandi e piccoli.

Finita la stagione delle gare, prima di ricoprirla di foglie per evitare che si congelasse, noi ragazzi si poteva giocare a cava-pallino, allora tutti i ragazzi di viale Trento partecipavano.

Una volta, per rimpinguare le entrate, mio padre si lasciò convincere ad affittare la corte dell’osteria al PCI per fare la festa dell’Unità, il parroco dei Carmini allora non volle più fare la benedizione annuale della casa e dovettero chiedere ai missionari di viale Trento di venire a benedire il fabbricato.

   
 

All’osteria si mangiava pane biscotto e soppressa, lasagne fatte in casa, bigoli, polenta e ‘scopeton’, questo nell’ordinario; c’erano poi le cene e i pranzi prenotati e allora si faceva lo spiedo con uccelli o altro a seconda delle richieste.

   

Quando c’erano i matrimoni si faceva l’antipasto, poi la zuppa con l’intingolo e poi l’arrosto e le patate fritte.

Rimanevano inutilizzate le budella, i colli e i durelli dei polli che venivano dati a una signora che abitava sotto l’arco d’entrata al cortile, lei se li puliva e aveva da mangiare per un bel po’, così niente andava sprecato.

Quando arrivavano i grossi commercianti del mercato portavano a cucinare le braciole con i rognoni, quelle erano cose da ricchi, e il profumo si spandeva per tutta l’osteria.

Ricordo che una volta,quando io avevo 14 anni, un orafo chiese a mia madre di preparare una cena, per i suoi dipendenti, a base di gatto.

Mia madre non volle saperne per una questione di principio nonostante il ricavato le avrebbe fatto molto comodo, ma l’altro continuava ad insistere tanto che mia madre disse : se lo faccia cuocere da sua moglie il gatto! Lui la prese in parola e la sera della cena arrivò con il gatto già cotto e alla fine del pasto tirò fuori dalla borsa la testa del gatto.

Ricordo ancora le corse che i sui dipendenti fecero per andare fuori nella fossetta a vomitare.

Di gente per l’Albera ne passava di tutte le estrazioni.

C’era il gran signore che scendeva dal monte con il carrozzino attaccato ai cavalli, tutto avvolto nel suo tabarro, era di famiglia nobile; Carollo che arrivava col carro con i bidoni del latte appena raccolto e a volte arrivava che era addormentato, ma il cavallo ormai si fermava da solo e allora lui si svegliava e scendeva a bere l’ultimo bicchiere prima di arrivare a casa;  poi c’era il meccanico di biciclette che abitava nella strada Pasubio, ora Pecori Giraldi; il giorno che si sposò Aldo Maistrello portò dentro anche un musso.

Della licenza era proprietaria la mamma e del fabbricata il papà che lo aveva per l’appunto acquistato dal fratello della mamma. In fondo dietro all’osteria avevamo una grande ‘caneva’, dove si tenevano al fresco le botti, che data l’ampiezza chiamavamo canevon.

Lì dentro mio padre dava da dormire gratis agli sfrattati senza tetto che si adattavano alla meglio.

Ebbe per questo anche delle noie con l’ufficio d’igiene, ma in quel caso disse che si doveva vergognare il comune a non provvedere a loro.

L’Albera, la grande pianta dalla quale prese il nome l’osteria e la località, cresceva possente sulla riva della fossetta che passava per viale Trento, attorno ad essa tutti quelli che si fermavano legavano i cavalli.

Molti raschiavano la sua corteccia per portare via i funghi che vi crescevano e così la pianta pativa; mio padre allora fece una specie di recinzione attorno per salvaguardarla.

L’Albera fu abbattuta dal Comune quando è stata interrata la fossetta ed espropriata una parte del terreno per allargare la strada. Quando poi demolirono anche il fabbricato, non ebbi neanche il coraggio di andare a vedere.