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Racconti di emigranti italiani |
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Sono
stata una emigrante negli anni Cinquanta, precisamente in Venezuela dal
1953, per venti mesi, fino al 1955. |
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la Signora Agnese ritratta con il figlio |
Il Venezuela è una nazione dell'America meridionale.
Confina a nord con il Mare delle Antille, a est con l'Oceano Atlantico
e Guyana, a sud con il Brasile, a ovest con la Colombia. |
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Per
andare con ordine devo dire che fin dal 1951 era partito per il Venezuela
mio marito, Antonio Marangoni, che allora aveva 27 anni.
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Insieme
a lui è partito anche mio fratello, Pietro Bonotto, che aveva 21 anni.
Sono andati nella provincia di Caracas.
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Anche molte delle nostre
famiglie sono emigrate, fino a tempi recenti, per cambiare o
migliorare la propria vita. |
Hanno affrontato fatiche,
rischi e nostalgia. Questa storia ha raccolto una di queste esperienze |
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VENEZUELA |
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Antonio era meccanico, aveva lavorato
nella fornace di S. Pietro in Gù, dove ci eravamo incontrati. |
Conosceva i macchinari ma soprattutto sapeva costruire gli stampi per i
vari tipi di mattoni. |
Mio
fratello invece era meccanico di auto. |
Al loro
arrivo a Caracas sono rimasti per venti giorni in un centro di raccolta e
smistamento per immigrati, a spese del governo venezuelano. |
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Ogni
mattina venivano dei padroni e sceglievano qualcuno. |
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Dopo 20
giorni Antonio è stato scelto per lavorare come meccanico in una fornace,
Pietro invece è andato in una officina di Caracas. Mio marito ha lavorato
lì, da solo, fino al ‘53: io volevo raggiungerlo ma lui non voleva. Mi
scriveva che il lavoro era molto duro, il posto molto brutto, c’era grande
povertà.
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Ma io
ho insistito: volevo stare con lui. Così nel 1953 sono partita, mi son
fatta chiamare da lui per ricongiungimento familiare. Ho portato con me il
nostro bambino che aveva quattro anni, io invece ne avevo 24. |
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Partita
da Genova, dopo circa due settimane di viaggio per nave sono arrivata a La
Guaira, il porto di Caracas. Lì c’erano mio marito e mio fratello ad
attendermi. Abbiamo mangiato qualcosa sul posto e poi, in macchina, siamo
andati a Petare, dove c’era il posto di lavoro. |
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Dalla
strada percorribile in auto alla fornace c’erano da fare tre chilometri a
piedi. Tra l’altro si attraversava un ponte traballante che scavalcava il
fiume dove scaricavano le fognature della città. |
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La
fornace era nella boscaglia, dove quelli del posto giravano col machete,
per difesa personale |
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Gli
operai erano tre ai forni e diciassette alla preparazione e
all’accatastamento dei mattoni, tutti uomini. C’erano quattro baracche.
Noi avevamo una baracca con la porta e la finestra di lamiera. Gli operai
dormivano sopra la fornace, in uno stanzone. C’erano alcuni abruzzesi e
alcuni friulani, dei portoghesi e un tedesco che faceva da direttore
(credo fosse un SS scappato dall’Europa dopo la guerra). |
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Il Venezuela è una repubblica federale presidenziale. |
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La lingua ufficiale è quella spagnola. |
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Tra gli
operai due avevano con sé il figlio di sedici anni. Non c’era acqua
potabile. |
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Per
lavare i vestiti e per lavarci usavamo l’acqua di un pozzo che stava su
una collina. Era acqua ferrosa, piena di scorie (che lasciava la
biancheria color rossiccio e che non venne più via neanche quando,
ritornata in Italia, l’ho lavata con molta varechina). |
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Per far
da mangiare e per bere andavamo con due secchi a una località lontana tre
chilometri; facevamo quindi sei chilometri tutte le sere e sempre tutto a
piedi. |
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Ma nel
periodo delle piogge ci risparmiavamo questa fatica perché mio marito
aveva fatto delle grondaie che raccoglievano l’acqua piovana che riempiva
i nostri secchi Antonio lavorava agli stampi e alle macchine e faceva
manutenzione alla domenica pomeriggio. o, unica donna, “tagliavo” i
mattoni, abbassando con forza una taglierina fatta a leva. I Conoscevo il
lavoro già in Italia. |
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Si
lavorava a cot-timo, dalla mattina alle sei fino a sera: facevamo anche
45.000 mattoni al giorno. |
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L’argilla era brutta, piena di sassi, molto diversa da quella del mio
paese in Italia. Facevamo mattoni e forati. C’era molto caldo, anche 40
gradi all’ombra e la fatica era tanta. Il nostro bambino era sempre con
noi, alla fornace. Ma al mattino noi andavamo a lavorare presto e lui si
svegliava più tardi e trovava pronto il latte e i biscotti. Avevamo latte
in polvere, naturalmente. |
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Lui si
vestiva, mangiava, poi veniva dove eravamo noi e giocherellava da solo
tutto il giorno, con l’argilla e poco altro. Riuscivamo a vivere con uno
stipendio mettendo da parte tutto l’altro. |
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Eravamo
andati in Venezuela per fare soldi. Io avevo imparato a usare il
fornellino a petrolio per far da mangiare. |
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Alla
sera preparavo la pentola sul fornello e mettevo la giusta misura di
petrolio, così, mentre si dormiva, il cibo coceva: quando finiva il
petrolio si spegneva il fornello da solo. |
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Alla
domenica mattina lascia-vamo il bambino a letto. Ci alzavamo un po’ prima,
cioè alle 4 invece che alle 5, e andavamo al mercato, a piedi, a fare la
spesa per tutta la settimana. |
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Poi,
con i sacchi in spalla, si tornava a casa. Erano sei chilometri di strada
poi scrivevo a casa: una domenica a mia mamma, una domenica a mia suocera.
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Siamo
andati a messa a Pasqua e a Natale perché non si poteva, c’era troppo da
fare. Ci pagavano il sabato. Gli operai locali erano neri e quel giorno
arrivavano le loro mogli con i figli a prendere la loro parte di paga. I
bambini erano sempre in giro nudi. Io ne ho vestito uno, ma quando è
tornato era di nuovo nudo. |
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Ci è
capitata anche una brutta avventura: Antonio, che era anche uno dei
responsabili, aveva sostituito un nero che era sempre assente il lunedì.
Noi ci perdevamo tutti se uno mancava, perché si lavorava a catena e a
cottimo. |
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Questo
nero ha dato un pugno a Antonio, che, a sua volta ha reagito. Così sono
stati portati entrambi in prigione. Lì ha dovuto difendersi, di notte, da
qualcuno che tentava di derubarlo. Poi, grazie all’intervento del padrone
della fornace, un italiano, è stato rimesso in libertà. Ma è stata dura.
Ho passato la notte sola nella baracca col bambino. Sentivo le bestie
notturne uscite dalla boscaglia che ci giravano intorno. In quel momento
ho perfino maledetto De Gasperi che ci consigliava di emigrare. |
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Il 27
agosto 1955 siamo tornati in Italia. |
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Appena
scesi dalla nave ho baciato la terra e ho detto “mai più”. |
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Antonio
è ripartito ancora per due anni, dal ’56 al ’58. Da S. Pietro in Gù
c’erano 20 persone in Venezuela in quegli anni. Anche altri miei fratelli
sono stati in Venezuela, oltre a Pietro, tornato nel 1958. |
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Anche
mia sorella è emigrata in Svizzera. Io ho incontrato molte persone oneste,
che volevano solo lavorare. Ma certamente ce n’erano anche di disoneste in
giro per il mondo. |
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La vita
da emigranti è molto dura e faticosa. Io volevo tornare presto, non sono
andata per restare là, non ho nemmeno imparato la lingua, né ho girato per
quel paese. |
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Ho solo
lavorato e ho capito che se il pane che mangio a casa mia ha una crosta,
là ne ha sette. |
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